IL POEMA FRANCESCANO di FRA GIUSEPPE

Un muro, uno spazio, una scena: le lunette

Nel chiostro fra Giuseppe rivestì le pareti con gli affreschi di storie francescane rispettando un progetto ordinato e vario nelle proposte. Progetto che mostra come il maestro seguisse le indicazioni di una cultura che veniva da lontano. Scrive Cassio, in una interessante ricerca sui protomartiri del Marocco, che in Italia

“si fece strada un tipo di illustrazione devota che impreziosì le pareti coperte delle clausure e soprattutto quelle dei chiostri, cuori spirituali dei conventi dove i frati incontravano Dio attraverso la meditazione, la deambulatio, la preghiera, il canto, la lettura e la riflessione a volte sollecitata da immagini pittoriche o scultoree significative per l’evoluzione dell’Ordine. Molto sovente si riscontrano dei cicli con storie tratte dalla vita di San Francesco intercalate da una serie di medaglioni recanti i ritratti dei santi e dei beati minoritici particolarmente venerati in loco.”

Fra Giuseppe, per evitare che lo sguardo si confondesse, con-fondendo situazioni così diverse, inserì ogni scena in una lunetta, cioè in uno spazio pittorico chiuso, delineato dalle precedenti scelte architettoniche.

“Un muro, uno spazio, una scena”. Così Gombrich sintetizza un pensiero di Leonardo che aveva polemizzato con pittori a lui contemporanei perché nei loro dipinti avevano accostato scene con orizzonti diversi, rischiando di far perdere alla rappresentazione la sua potenzialità drammatica. La sequenza obbligata doveva essere: la separazione delle scene, la protezione dei loro contenuti, la conseguente esaltazione della loro drammaticità, la reazione empatica di chi guardava.

I componimenti delle istorie dipinte debbono muovere i riguardatori e contemplatori di quelle a quel medesimo effetto ch’è quello per il quale tale storia è figurata; cioè se quell’istoria rappresenta terrore, paura o fuga o veramente dolore, pianto o lamentazione, o piacere, gaudio e riso […] e se così non fanno l’ingegno di tale operatore è vano”.

In un contesto diverso, spinto da altre motivazioni, Sant’Ignazio di Loyola suggerisce negli Esercizi Spirituali gli stessi passaggi da rispettare. Dopo la lettura di un passo non eccessivamente lungo della narrazione biblica, è necessario impegnarsi nel vedere la situazione descritta. Ecco un esempio:

  vedere  il luogo; e qui con la vista dell’immaginazione vedere il cammino da Nazareth a Betlemme, considerandone la lunghezza, la larghezza e se esso sia per piano o per valli o per coste; così pure considerando il luogo o grotta della Natività, quanto sia grande, quanto piccola, quanto bassa, quanto alta e come era preparata.

Seguono la contemplazione, la meditazione e poi…

 Inginocchiamoci con Maria e Giuseppe e con tutti i pii fedeli, dinanzi a quella mangiatoia e domandiamo rispettosamente al Santo Bambino, curando di leggere la risposta nel suo sguardo così luminoso: “Perché, Salvatore mio, tutto questo?”

Il risultato è dunque un moto dell’anima, un momento empatico che nasce dalla creazione delle immagini mentali, indispensabile esercizio spirituale suggerito dal testo scritto. Non era un esercizio per tutti. San Gregorio Magno tanti secoli prima aveva scritto: “La pittura è per l’analfabeta ciò che la scrittura è per chi sa leggere”. Il momento empatico che spinge chi sa leggere a mettersi in ginocchio e a vivere le situazioni proposte da un testo può essere assicurato a tutti da una immagine. A una condizione. La stessa suggerita da Sant’Ignazio. Scrive Gombrich:

Questa esperienza necessita ovviamente di un certo modo di guardare. Dobbiamo concentrarci e focalizzare la nostra attenzione sulle figure, una alla volta, mentre ci immergiamo nell’evento rappresentato. È a questo scopo che sono mobilitati tutti i mezzi del pittore.

L’immagine artistica, come la poesia, ci fa entrare così nel mistero, nel sacro, rendendoci testimoni dell’indicibile e dell’invisibile.

L’armoniosa articolazione architettonica divide lo spazio delle lunette, ma insieme lo esalta, ponendole in una ordinata successione che trasforma eventi così diversi in capitoli di un unico racconto in cui protagonista è il Francescanesimo e la sua storia con le prove difficili da superare, gli antagonisti e gli aiutanti umili e potenti di ogni tempo, le lotte, la vittoria.

Le pareti-canto del poema

“Nulla, nel suo scopo didattico e ritualistico, impedisce all’artista di usare appieno la struttura fornitagli dall’architetto. Le articolazioni dell’edificio coincidono con il raggruppamento delle immagini” scrive Gombrich.

Le pareti del quadriportico sono state utilizzate con la stessa funzione narrativa delle lunette. Mentre ogni lunetta racconta e chiude in sé un episodio, in ognuna delle quattro pareti c’è un capitolo, un canto del poema.

Si considera Prima parete-canto (lunette da 1 a 6) quella che parte dall’uscio della sagrestia. Comincia con una specie di fuori testo che è uno dei due grandi affreschi: quello dell’albero francescano con i papi e i cardinali intorno all’Immacolata. Seguono le lunette che presentano scene simboliche o episodi della vita di “campioni” francescani. Vite diverse, modelli di vita diversi legati dal filo rosso di una fede smisurata, nutrita di passione. Finisce con l’incontro di Francesco col Sultano, affresco andato completamente perduto. Il contenuto del commento è stato suggerito dalle poche parole leggibili della didascalia.

La Seconda parete-canto (lunette da 7 a 12) è dedicata ai martiri. È introdotta dal secondo dei grandi affreschi con santi francescani nella gloria del Paradiso.

Sulla Terza parete-canto (lunette da 13 a 17) ci sono scene della vita di santi che hanno vissuto la spiritualità francescana in contesti principeschi e ricchi in cui sono fiorite scelte di povertà, di umiltà, di carità. È introdotta dall’affresco la cui didascalia può essere considerata il progetto pittorico di fra Giuseppe.

Sull’ultima parete-canto o Quarta parete-canto c’è purtroppo solo un grande incipit: San Francesco riceve le stimmate. La didascalia è completa mentre l’immagine, come tutti gli altri affreschi di questa parete, è andata perduta. È un incipit non solo perché posto all’inizio della parete ma perché le stimmate, se da un lato sono il coronamento della vita del Santo, dall’altro aprono la sua seconda “vita” che arriva ai tempi nostri.

Alla base delle lunette, sugli zoccoli dei grandi pannelli principali sono dipinti al centro blasoni gentilizi di nobili famiglie gravinesi e, sui punti estremi, dei medaglioni con i ritratti di santi e beati francescani tra cui figure femminili, grandi sante intraprendenti, intellettuali, coraggiose del secondo e terzo Ordine, completamente assenti nelle lunette e negli affreschi sulle celle del piano superiore. Qui grandi arabeschi affrescati incorniciano i volti di Gesù, di Maria e di Santi francescani, alcuni non presenti nel chiostro, tra cui San Bernardino da Feltre, Sant’Antonio e i protomartiri del Marocco.

L’exemplum al crocevia del tempo

Nella cultura greco-latina exemplum era un genere letterario, un aneddoto di carattere storico presentato come argomentazione giuridica o politica. Nel Medioevo il predicatore-moralista cristiano lo trasformò in uno strumento di insegnamento e/o di edificazione. L’exemplum diventò “un racconto breve presentato come veridico (storico) e destinato a essere inserito in un discorso (generalmente un sermone) per convincere l’uditorio mediante una lezione salutare”.

Le lunette raccontano storie che rendono ogni affresco un antico exemplum. I medaglioni sollecitano la ricerca nella stessa direzione. San Francesco era considerato un modello, l’exemplum per eccellenza.  La sua vita è stata scritta più volte. A metà dell’Ottocento J. Renan, storico delle religioni di indirizzo positivistico, lo definisce “il Padre dell’arte italiana”. Fra Giuseppe dedica a Francesco quattro lunette: il sogno del papa che lo vide come “novello Atlante” farsi carico della Chiesa che vacillava; il sogno di San Domenico che vide se stesso e Francesco indicati da Maria per placare un Gesù che lanciava dardi come Giove tonante; Francesco che lotta contro le tentazioni affrontando il fuoco con le difese di una salamandra; Francesco che si offre all’angelo per farsi imprimere le piaghe sul corpo e, come dice Tommaso da Celano, da quel momento non è lui che vive ma è Cristo che vive in lui.

Il Francesco di fra Giuseppe non è il giullare che parla agli uccelli, non è il poeta che in un canto d’amore abbraccia l’universo, è un ardente Serafino, un “campione” sofferente e vincente, un altro Cristo. Le sue scelte sono radicali, senza sconti per il corpo e per l’anima, come sine glossa doveva essere la Regola.

Il poema francescano si arricchisce di nuovi contenuti attingendo alle altre storie che fra Giuseppe ha dipinto nel chiostro; storie dedicate quasi sempre a un santo o a un beato diverso. Sono episodi che appartengono a un tempo lontano e proprio per questo affascinante, colorato intensamente di poesia, carico di senso. Mentre l’affresco fissa la storia in questo passato remoto, la didascalia illustrativa può consentirsi, quando è necessario, l’uso dell’imperfetto e del presente. I testi infatti si concludono con una frase che rende la storia ancora attuale, non conclusa:

“… è sepolto nella chiesa dei frati minori ove compie molti miracoli. Lode a Dio”;

“morì nella conquista della terra santa. Il Signore lo illustra con i miracoli”;

“sepolta nella patria risplende con miracoli”;

“il suo corpo incorrotto fu illustre […] vedesi nella patria”.

Sono puntualizzazioni che fanno pensare a una esperienza diretta o a un passaggio orale di informazioni. Scrive Le Goff: “Non è un caso che i frati mendicanti siano i grandi diffusori […] degli exempla. Sono gli specialisti del tempo ravvicinato”.

San Francesco non è stato un esperto di Teologia, forse perché aveva deciso di cercare altrove le risposte che gli servivano. In questo chiostro però potrebbe intravedersi una idea di Teologia che appartiene a lui e al nostro tempo. Dice Horkheimer, il filosofo tedesco della scuola di Francoforte, in una intervista:

La teologia è – devo esprimermi con molta cautela – la speranza che, nonostante questa ingiustizia, che caratterizza il mondo, non possa avvenire che l’ingiustizia possa essere l’ultima parola. [Teologia] è espressione di una nostalgia, secondo la quale l’assassino non possa trionfare sulla sua vittima innocente.

Il saggio di Le Goff apre orizzonti che vanno al di là del semplice recupero del presente. Gli exempla, e quindi anche le storie francescane di fra Giuseppe, rimandano a un altrove inteso anche come futuro carico di speranza, al tempo della salvezza. A chi ascolta, a chi guarda vien chiesta una reale, immediata conversione, l’unica capace di aprire il sentiero che porta a un mondo nostalgicamente desiderato in cui ci sarà pace perché ci sarà giustizia e amore. Nel futuro c’è il ritorno alla casa del Padre. Per sempre.

Ed è solo il disvelamento di questo tempo segreto, crocevia del passato, del presente e del futuro, che dà significato e senso alle scelte folli di chi va volontariamente in cerca del martirio come San Diego, di chi si rifiuta di bere mentre è assetato e per i lunghi digiuni riduce il corpo a una secca corteccia d’albero come San Pietro d’Alcantara, di chi si allontana da una vita protetta e agiata per vivere nella angusta celletta di un convento come la Beata Margherita Colonna.

La dimensione narrativa, il gusto dell’azione, la partecipazione intellettuale ed emotiva al dramma rappresentato negli affreschi e insieme le solide e sobrie colonne, il pozzo misterioso e magico, le finestrelle tutte uguali e tutte chiuse che si affacciano a guardare le rose che tutt’intorno fanno festa, creano un’aura che dà vita anche ai ritratti dei medaglioni.

Le verità a colori di fra Giuseppe

Come Jacopo da Varagine che scrisse quell’intramontabile testo che è la Leggenda aurea , fra Giuseppe ha dovuto ricercare storie sulle vite dei santi francescani, le ha confrontate, ha valutato la loro credibilità e le ha raccontate con i colori della sua tavolozza non ignorando il tipo di verità di cui erano portatrici. Quelle fonti erano spesso la trascrizione di racconti orali trasmessi di bocca in bocca e quindi modificati dai narratori. Nella lunetta sull’episodio della tentazione di Francesco una vaga donsella entra nella sua camera per tentarlo mentre è ospite di Federico II nel castello di Bari. Francesco resiste. Nei Fioretti è in visita dal Sultano e tutto va come sopra. Forse le due informazioni vanno insieme se si considera che alla corte di Federico c’era una consistente presenza saracena.

Fra Giuseppe nella sua ricerca si sarà imbattuto in varie difficoltà di questo tipo. Per scegliere avrà usato criteri anche rigorosi, ma le fonti erano numerose e a volte contrastanti ed era impossibile valutare e vagliare la loro attendibilità storica. Egli scelse le storie e i personaggi come exempla. E questo si scopre

ad esempio nelle passioni dei martiri spesso troppo somiglianti fra di loro, e nelle figure dei persecutori: mostri capaci di ogni crudeltà, tutti uguali nella loro perfidia […]. Ugualmente è facile osservare che tutti i santi sono insigni per essere tutti dotati delle stesse virtù e che alcuni episodi sono riferiti a più di uno fra loro […] è un segno della fede che guardava all’eterno e come tale al di fuori e al di sopra di quelle cognizioni erudite che variano col passare degli anni e che sono diletto degli umani ingegni.

Le incongruenze e le inverosimiglianze non tolgono valore alla narrazione. Attraverso queste storie tanti visitatori del chiostro hanno conosciuto le virtù e le vittorie dei santi come “dalle canzoni di gesta apprendevano le imprese profane degli eroi”.

Le storie del chiostro hanno radici storiche e sono portatrici di una antica verità, di cui il passaggio di bocca in bocca non le ha private. Nel tempo, alla verità storica iniziale, scarna ed essenziale, si sono aggiunte quelle dei narratori ispirate non dalle fonti, ma dalle loro esperienze di vita, dal desiderio. I narratori hanno tessuto le loro verità come fili variopinti e originali infilati nel testo della storia ricevuta e, così trasformata, l’hanno passata ad altri. Una catena che affonda nelle viscere della terra… alla quale è tempo di agganciarci, magari grazie alle immagini di fra Giuseppe.

Nelle lunette …..

Nelle lunette ci sono elementi ricorrenti che legano magistralmente situazioni anche molto diverse accrescendo la coesione e la coerenza del poema. Tutte rivelano il punto di vista frontale del frescante. Il santo a cui l’immagine è dedicata in genere occupa il centro. A destra e a sinistra spesso gli altri personaggi formano gruppi diversi impegnati in varie attività.

Il cielo è sempre presente. Sullo sfondo, se la scena è un interno, ci sono grandi aperture o finestre che permettono di intravederlo, un pezzettino tutto azzurro, a volte nuvoloso che, in alcuni casi, illumina una delicata ma fiorente vegetazione. Secondo le regole della iconografia “davanti vuol dire dentro”. I personaggi sono davanti all’apertura ma l’azione deve considerarsi interna.

Spesso c’è un fascio di luce che scende dall’alto nella direzione del santo e che rivela la presenza dell’Altissimo, di cui è un eletto e da cui attinge forza. Le nuvole circondano, sostengono o rimandano a presenze soprannaturali.

I personaggi appartengono ai francescani e a classi sociali diverse. Gli abiti dei nobili e dei prelati sono eleganti, sfarzosi, ricchi di pizzi, merletti, pregiate stoffe colorate; ridondanti nei colori ma anche nei modelli sono gli abiti dei saraceni. I boia sono a torso nudo o comunque poco coperti. Tutti i costumi contrastano con quelli dei francescani (se ci sono), sempre uguali, di quello strano colore che fa pensare alla terra brulla.

Lunghe spade armano le mani dei soldati, vari strumenti di tortura quelle dei saraceni che danno il martirio. In quattro lunette dedicate a un martire, c’è un saraceno (in una, una saracena) che impugna un coltello chiamato “misericordia”: il boia lo usava per il colpo di grazia cioè per mettere fine alle torture con una morte immediata.

Gli occhi dei santi e soprattutto dei martiri sono alzati verso il cielo, spesso la pupilla si intravede appena. Sembrano stimolati dall’invito di San Paolo: “Cercate le cose di lassù”. Il corpo dei martiri è teso e anche la posizione esteriorizza non tanto una esperienza di dolore quanto di estasi. Spesso hanno nelle mani un ramo di palma (nel Paradiso sono gli angeli a portare fasci di palme). La palma non è simbolo del martirio, ma della vittoria e addirittura della resurrezione: nell’Apocalisse i martiri vincitori della morte e del demonio portano rami di palma.

Molti santi hanno in mano un libro: sono fondatori di ordini religiosi o vescovi o grandi predicatori. Nel primo caso il libro è la Regola che hanno scritto, negli altri due sono i Vangeli di cui hanno avuto la responsabilità della divulgazione.

Fra Giuseppe e la donna: da Eva a Chiara

Fra Giuseppe non dedica alle donne nessuna lunetta, ma esse sono presenti in alcune storie in ruoli marginali o negativi.

Ci sono le vaghe donselle che hanno il compito di tentare gli uomini: in una lunetta una ragazza, mandata dal signore del castello, tenta invano addirittura Francesco; in un’altra lunetta sono ragazze delle isole Molucche che tentano e poi torturano in pubblico un martire per rendere più mortificante la sua morte. In questi casi la donna era ancora Eva, che la Chiesa continuava a presentare come pericolo incombente da cui stare lontani.

C’è la donna madre/matrigna, che assiste alla morte del figlio senza mostrare commozione solo perché, scegliendo di essere un eremita, si era sottratto al progetto di potere che lei aveva sognato per la sua vita.

C’è la donna sposa-fedele, quella che realizza la sua perfezione condividendo le scelte di castità dell’uomo che ha sposato (sposa del Beato Enrico di Cipro, Santa Delfina, sposa di Sant’Elzeario). C’è la grande Santa Teresa d’Avila presentata solo come testimone della santità di San Pietro d’Alcantara e come sua discepola.

Sei grandi donne sono nei medaglioni: sono mistiche, fondatrici, badesse intelligenti e colte, vissute e protette da grandi monasteri, impegnate in opere di apostolato, in cui riescono a coinvolgere nobili e ricchi (in alcuni casi perché esse stesse provenienti da questi ceti).

E poi c’è Chiara: è sola sulla parete della scala che porta alle celle dei frati dove c’è solo un’altra donna: Maria. La figura di Chiara collocata lì lungo la scala fa pensare a una figura materna, quasi protettiva. Penso a Chiara che cura Francesco ammalato e quasi cieco, che provvede ai suoi bisogni più semplici: medica le sue ferite, cuce per lui delle bende, crea delle scarpe di stoffa per non irritare le ferite ai piedi. Evocare la madre non è una forzatura; Francesco affidava a due frati più grandi che chiamava le madri il periodo di formazione di due frati giovani, dicendo che, vivendo isolati, si sarebbero divisi i ruoli e i compiti di Marta e Maria.

Chiara non sta nel chiostro, ma è vicina ai frati; non sta nemmeno sulla porta di una cella perché a lei sono affidati tutti i frati presenti nel convento. Francesco è assente e lontano, Chiara è giusto che stia sola quasi a voler sottolineare che il suo percorso è simmetrico, parallelo, non complementare a quello di Francesco. L’esempio del Santo non le ha impedito di delineare una sua strada in cui ha continuato a camminare da sola. Ma fra Giuseppe ha veramente pensato così? Qualche dubbio nasce quando si scopre che nel grande affresco del Paradiso non c’è nessuna donna, nemmeno Chiara.

Bibbia dei poveri o, meglio, degli illetterati

Sicuramente c’è stato un tempo in cui povero era sinonimo di illetterato e quindi la Bibbia dei poveri, fatta di immagini, era la Bibbia di chi non sapeva leggere. Eppure c’erano anche altre modalità che rendevano possibile l’acquisizione di un sapere letterario: la narrazione orale, con il passaggio di bocca in bocca, e l’ascolto di quella semiorale, con la lettura ad alta voce. In tutti e due i casi c’era l’acquisizione di un sapere libresco che non richiedeva alfabetizzazione. La vita dei santi, la legenda, era tra i testi preferiti.

Il Concilio di Trento si era posto e aveva imposto alla Chiesa, in particolare agli ordini religiosi, obiettivi di attenzione ai bisogni di una catechizzazione più rigorosa del popolo. Negli stessi anni il barocco proponeva opere che stimolassero la meraviglia e lo stupore. L’incontro tra questi due intenti, nati da istanze solo apparentemente diverse, fu inevitabile: la Controriforma tridentina trovò nel barocco un valido strumento di persuasione e l’arte trovò nei soggetti religiosi una ricchezza di storie in cui la bellezza abitava da sempre.

In pieno Seicento, nel chiostro di San Sebastiano però, a ispirare fra Giuseppe nella scelta dei contenuti è stata soprattutto la devozione ingenua ma esigente di una committenza provinciale (sono tante le famiglie presenti col loro blasone) che considerava essenziale l’aspetto dottrinale delle opere. Gli esempi presentati, immagini supportate da forme narrative brevi ma essenziali ed espressive, diventano per il credente stimolo alla devozione e alla preghiera. E così, più che alle imponenti e drammatiche scene caravaggesche, questi affreschi rimandano alla Bibbia dei poveri/illetterati e fanno pensare alle delicate, magiche icone di Giotto.

Cardinali e papi: berretta cardinalizia, galero, triregno

I cardinali erano ecclesiastici preposti al servizio di una chiesa o di una diaconia. Erano quindi incardinati, da cui cardinali. Quando si fermarono a Roma a servizio del papa, i loro compiti cambiarono a tutto vantaggio del loro prestigio. Il collegio cardinalizio col tempo è diventato una personalità giuridica con la funzione di collaborare strettamente con il papa, di assumere compiti di supplenza in sua mancanza, di eleggere il nuovo papa.

In uno dei due grandi affreschi tutti i cardinali, tranne uno, hanno la berretta cardinalizia sulla testa o in mano. Qualcuno la guarda, qualche altro la ignora. Solo il cardinale Vicedomino de Vicedominis ha il camauro, un copricapo che i papi usavano d’inverno, forse per ricordare che quando è morto, eletto papa solo da qualche ora, era vecchio e malato. Allora è la morte ad assumersi il compito di proclamarlo papa posandogli sulla testa il triregno. La berretta fu concessa nel 1464 dal papa Paolo II, ma la definizione ultima dei quattro spicchi, e quindi della sua forma, si ebbe verso la metà del XVI secolo. Per mantenerle sempre così in forma i cardinali infilavano un cartone rigido.

Il copricapo più noto, simbolo della dignità cardinalizia, è il galero rosso, con una grande falda. È del 1245, concessione del papa Innocenzo IV durante il concilio di Lione. Il rosso è simbolo della Passione e indica la disponibilità al martirio, perciò la porpora è il colore dei cardinali, principi della Chiesa, pronti a immolarsi per lei (purtroppo sono stati molti a dimenticarlo nel corso della storia). Il triregno era il risultato di una trasformazione della tiara, avvenuta per tappe. Le corone sovrapposte erano diventate tre per indicare i tre poteri del pontefice: padre dei principi e dei re, rettore dell’orbe, vicario di Cristo. Dopo la proclamazione di Paolo VI, il triregno è stato abbandonato, ma non abolito.